Marlon Brando, molto più di un ribelle

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Marlon Brando non è stato semplicemente un attore, ha rappresentato e rappresenta ancora oggi uno stile di vita e un modello da imitare. Fin dai suoi esordi, anche i giovani attori si ispiravano a lui, nella recitazione e nel modo di essere. James Dean ad esempio lo idolatrava, anche nella vita privata si comportava secondo il “modello Brando” che i media proponevano. Ma etichettare Marlon Brando come ribelle, fuori dagli schemi o come bello e dannato non sarebbe solo scontato ma soprattutto ricalcherebbe un clichè creato anche da film come “Un tram che si chiama desiderio” che in molti tratti fa a pugni con la sua vera indole. L’attore aveva una personalità molto più complessa, frutto di un’infanzia difficile minata da una situazione familiare non esemplare. Brando nasce ad Omaha nel Nebraska il 3 aprile 1924 e cresce con una mamma perennemente ubriaca e un padre assente e violento che si divertiva a distruggere l’autostima del figlio. Per il piccolo Marlon l’unica àncora di salvezza era rappresentata dalle due sorelle, alle quali fu molto legato per tutta la vita. Dotato di una bellezza, di un sex appeal e di una carica erotica incontenibile, ammaliava donne e uomini. Uno degli uomini più importanti della sua vita fu Wally Cox, che l’attore ricordò proprio in una delle sue ultime interviste dichiarando che non passava giorno nel quale non pensasse a lui. Ultimamente, molto si è parlato anche di una relazione con Laurence Olivier, che avvenne durante le riprese di “Un tram che si chiama desiderio”, dove Brando aveva come partner proprio la moglie di Olivier, Vivien Leigh. Dopo i grandissimi successi di pubblico e critica degli anni 50 con film come “Fronte del porto”, “Il Selvaggio”, “Il mio corpo ti appartiene”, durante gli anni sessanta la sua carriera ricevette una battuta d’arresto a causa di pellicole poco fortunate al box office; il successo ritornò negli anni 70 con film che sono rimasti nell’immaginario collettivo come “Ultimo tango a Parigi” e “Il Padrino”. Quest’ultimo regalò a Brando il secondo Oscar dopo quello per “Fronte del porto” del 1954. Anche se il film di Bertolucci lo rilanciò come grande star, Brando non amò mai particolarmente “Ultimo tango a Parigi”. Riguardo a “Il Padrino”, il divo americano raccontò che non andò a vedere il film quando uscì nelle sale, perché poco soddisfatto di come aveva reso il suo personaggio; solo qualche tempo dopo, riguardandolo in tv, riuscì ad apprezzare la sua performance. Fin da bambino Marlon Brando prese coscienza della sua inclinazione verso le persone in difficoltà, soprattutto sul piano umano e sociale; era solito far amicizia con i vagabondi e con gli emarginati, solo con loro riusciva davvero ad essere sé stesso e a sentirsi a suo agio. Una delle sue battaglie più appassionate fu quella a favore degli indiani. In segno di protesta per i maltrattamenti ricevuti dagli indiani d’America da parte di Hollywood e degli Stati Uniti, Brando non andò a ritirare il suo secondo Oscar vinto per il “Il Padrino” di Francis Ford Coppola. Al suo posto inviò la squaw Sacheen Littlefeather, che lesse alcuni stralci del discorso di protesta scritto dall’attore. Insofferente alle regole, Marlon amava circondarsi di persone che non appartenevano al dorato e falso mondo dello showbiz, infatti i momenti più belli della sua vita li trascorse a Teitora, un atollo della Polinesia situato nell’oceano Pacifico, che acquistò nel 1965. In quell’atollo sperduto, che Brando conobbe durante la lavorazione del film “Gli ammutinati del Bounty”, remake del leggendario omonimo film con Clark Gable e Charles Laughton, si costruì il suo piccolo paradiso, fatto di giornate scandite da ritmi lenti e circondato dalla gente del posto, persone semplici che non subivano il fascino del mito hollywoodiano. Brando considerava il mestiere d’attore solo un modo per guadagnare tantissimo in poco tempo. Infatti, anche se ha avuto una carriera lunghissima la sua filmografia non è sterminata. Decideva di girare un nuovo film solo per continuare a mantenere il suo stile di vita ma soprattutto per affrontare le spese per la sua amata Teitora. Fuori dal set, il divo era molto riservato ed estremamente corretto con le persone che entravano a far parte della sua vita privata, non si è mai lasciato andare a pettegolezzi e particolari sui suoi affetti. Gli ultimi anni dell’attore furono molto tristi. Dopo varie tragedie familiari, come quella del suicidio della figlia Cheyenne e un’accusa di omicidio per Christian, il suo figlio prediletto, finito in galera per l’assassinio dell’amante della sorellastra, si lasciò andare aumentando di peso, trasformandosi completamente. Il bellissimo ragazzo di “Giulio Cesare”, de “I giovani leoni”, di “Pelle di serpente”, ormai non esisteva più, ne restava un uomo di 140 kg fortemente minato nel fisico e nella psiche. Ma poco prima di morire Brando stava lavorando ad un nuovo progetto dal titolo “Brando and Brando”; probabilmente nei suoi occhi si nascondeva ancora la voglia di vivere di quel “selvaggio” che Hollywood non riuscì mai ad incatenare.

Eduardo Paola

(Articolo pubblicato su “Sussurri & Grida” nel numero di Febbraio 2014)

Francesca Bertini, ritratto di un’attrice d’altri tempi

Francesca Bertini

Il suo nome ci riporta indietro nel tempo, alle magiche ed eleganti atmosfere del cinema muto. Francesca Bertini fa parte di un tempo che ormai sembra lontano anni luce, un tempo in cui dal grande schermo fascinose attrici ammaliavano gli spettatori con pose lascive e occhi penetranti. Nata il 5 Gennaio del 1892 a Firenze, Francesca Bertini visse tutta la sua infanzia a Napoli. Sua madre, Adelaide Frataglioni, era una modesta attrice toscana che, rimasta sola con la sua bambina si legò ad un altro uomo, Arturo Vitiello, un trovarobe napoletano che fece da padre alla piccola Francesca. Furono proprio suo padre e sua madre che le fecero muovere i primi passi sui palcoscenici di Napoli introducendola nell’affascinante e spietato mondo del teatro. I suoi occhi nerissimi dallo sguardo intenso, i capelli corvini che le incorniciavano i lineamenti decisi ma delicati le spalancarono le porte del Cinema, diventando in soli due anni dal suo esordio sul grande schermo, l’attrice più famosa e più pagata del mondo. Con i suoi oltre 100 film in soli 10 anni di carriera, la Bertini rappresenta la massima espressione della celebrità dei suoi tempi. Per lei, nel 1915 fu coniato il titolo di diva, nella particolare accezione che questa parola ha finito per avere. Riservatissima, condusse un’esistenza molto appartata, poco si sa della sua vita, lei stessa in una delle sue autobiografie scrisse “pochissimi erano coloro che potevano affermare di avermi vista di persona. Gelosa di me e del mio affascinate lavoro, uscivo molto raramente: da questo atteggiamento non esulava il calcolo. Avevo intuito che se avessi agito diversamente avrei forse spezzato l’incantesimo”. Francesca Bertini iniziò giovanissima la sua carriera da attrice: nel 1899 esordì a Napoli col nome di Franceschina Favati nella compagnia di Serafino Renzi, in seguito passò nella famosa compagnia Stella e nel 1901 fu scritturata da Gennaro Pantalena. A soli 12 anni, nel 1904, fece il suo ingresso nella compagnia di Eduardo Scarpetta, ma è col Cinema che raggiunse il successo e la grande celebrità. Dotata di una grande carica espressiva, interpretò quasi sempre ruoli di donne dal grande temperamento, come quello di Assunta Spina, forse il suo film più celebre, conservato nella cineteca nazionale, ancora oggi considerato il capolavoro del cinema muto italiano. Diretto da Gustavo Serena nel 1915, “Assunta Spina” fu girato completamente a Napoli e aprì il filone del Cinema “realistico” al quale si ispirò anni dopo il neorealismo. Nella sua carriera seppe interpretare, con grande modernità sia ruoli da popolana che da eroina decadente dando vita a personaggi di grande passione come Odette, Fedora, Tosca, la Signora delle Camelie e la stessa Assunta Spina. Francesca Bertini si appassionava molto anche al lato tecnico del Cinema, collaborando nella stesura delle sceneggiature, suggerendo spunti registici e montando intere scene. Questa sua passione la portò, nel momento massimo del suo successo, a fondare la “Bertini Film”, casa di produzione cinematografica affiliata alla celebre “Caesar”. Dotata di un carattere molto forte, nella sua vita privata come nel lavoro, imponeva le sue scelte, dai soggetti agli attori, faceva e disfaceva gli ordini del giorno, per ogni scena pretendeva di indossare un abito nuovo e ogni giorno, alle cinque in punto, Francesca Bertini, la diva, doveva essere nei grandi alberghi a prendere il thè con le dame e tra le dame e non c’era programma di lavorazione che tenesse. Inflessibile anche con sé stessa, aveva intuito quanto costi la gloria e il successo, e rinunciava all’amore di corteggiatori anche illustri. Perfino la moda di Parigi di quegli anni si era lasciata affascinare dal suo personaggio, lanciava cappelli alla Bertini, mantelli alla Bertini, pettinature alla Bertini. Nell’agosto del 1921 venne contattata dalla Fox Film, intenzionata a portarla in America, firmò pure il contratto ma da li a poco ci fu un’altra proposta, molto più importante per l’attrice. Improvvisamente nel settembre del 1921 a soli 27 anni, dopo 10 anni di incontrastato successo e dopo aver guadagnato milioni, Francesca Bertini abbandonò la sua carriera di attrice per sposare quello che sarebbe stato il grande amore della sua vita, il banchiere svizzero Paul Cartier. Anni dopo dichiarò di non essersi  mai pentita di questa scelta e di non essere mai stata affascinata dal dorato e luccicante mondo di Hollywood e dall’America in generale. Dopo il matrimonio l’attrice centellinò le sue uscite in pubblico conservando intatto il suo mito e la sua aura di diva. Il 15 ottobre del 1985 nella sua villa romana, in una mite mattinata d’autunno all’età di 93 anni, silenziosamente si spense. Con lei finiva un’epoca, quella di un tempo che ormai sembra lontano anni luce.

Eduardo Paola

(Articolo pubblicato su “L’Espresso napoletano” nel numero di Febbraio 2014)