Marlene, angelo eterno e ambiguo

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Libertà, trasgressione, ambiguità: è questo quello che ha incarnato ed incarna ancora oggi Marlene Dietrich. Nel corso della sua lunga carriera ha recitato in oltre 50 film, oggi ne ricordiamo frammenti indimenticabili, visioni di bellezza mozzafiato, immagini sfolgoranti, ma raramente le pellicole per intero. Quello che è rimasto oggi di Marlene è soprattutto il suo mito. Più che una donna, un ideale, più che un ‘attrice, un’icona. L’immagine che tutti noi abbiamo della grande diva è fortemente legata a Josef von Sternberg, il regista che la diresse in sette film e che le disegnò addosso il personaggio che interpretò per tutta la vita. Marlene nei film diretti da Sternberg  incarna sempre la stessa tipologia di donna, rappresentando l’immagine stessa dell’amore, fatta per l’amore dalla testa ai piedi, proprio come cantava nel film che l’ha resa celebre in tutto il mondo, “L’angelo azzurro”. Con “L’angelo azzurro”, primo film sonoro del cinema tedesco, le si aprono le porte di Hollywood. Il film viene girato simultaneamente in tedesco e in inglese e i costumi sono disegnati dalla stessa Marlene. Per capire il rapporto che lega il regista con la sua creatura è necessario osservare il modo in cui la dirige e la trucca. Sternberg  lavora su Marlene trasformandola. Tra le riprese de “L’angelo azzurro” e quelle del successivo film, “Marocco”, l’immagine della Dietrich è fortemente modificata, le vengono cambiati il colore dei capelli e il trucco e con le luci le si accentuano il pallore del viso e le guance scavate, ma soprattutto Sternberg  le insegna come comportarsi davanti ad una macchina da presa.  In “Marocco”, del 1930, gioca con la sua mascolinità e col piacere che l’attrice prova ad indossare abiti maschili. Nella scena in cui Marlene bacia una donna (primo bacio omosessuale del cinema) il regista vuole proprio enfatizzare la sua ambiguità. Dopo questo sodalizio artistico che è stato irripetibile, la Dietrich viene diretta dai più grandi, come Billy Wilder, Alfred Hitchcock e Orson Welles. Se sul grande schermo il mito di Marlene incarnava la sensualità, la femme fatale, la fiamma ardente del peccato, in realtà, ella aveva una concezione tutta particolare dell’amore, diceva “ama per la gioia di amare e non per ciò che ti offre il cuore di un altro”. Non le interessava l’amore fisico, per lei il sesso era qualcosa di estraneo, quasi dovuto alle insistenze dell’uomo. Più che gli uomini, adorava i gesti dell’amore, le parole, la messa in scena dell’amore, questo spiegherebbe la sua intensa storia d’amore con lo scrittore tedesco Erich Maria Remarque, che la sera stessa in cui si conobbero le confessò di essere impotente. Marlene definiva il loro amore sublime, come l’amicizia amorosa con Ernest Hemingway, un amore platonico, oltre l’orizzonte. Quando nel 1930 lascia la Germania per Hollywood, la Paramount la lega a sé per sette anni e da allora i rapporti con la sua patria d’origine saranno sempre conflittuali, soprattutto nel momento in cui Hitler sale al potere. Quando il conflitto sta per travolgere il mondo, si schiera con tutte le sue forze contro il Terzo Reich, diventa madrina di guerra al fianco degli americani, canta per i soldati nelle trincee suscitando entusiasmo e passione con le sue esibizioni. Vive il suo impegno come una vera e propria missione politica e artistica. Quando la Germania si arrende, Marlene entra dalla porta di Brandeburgo con la divisa americana. I tedeschi non la perdoneranno mai. Quindici anni dopo, durante una tournée a Berlino, i fischi le lasciano un segno indelebile, non tornerà mai più in patria se non per essere sepolta. Quando la sua carriera cinematografica comincia ad avere qualche battuta d’arresto, Marlene non si dà per vinta, così si reinventa cantante dando il via ad una vera e propria seconda vita artistica. Tutto ha inizio il 15 dicembre del 1953, quando al Sahara Hotel di Las Vegas va in scena il primo di una lunga serie di spettacoli dal vivo della Dietrich. Trentamila dollari alla settimana per venticinque minuti di concerto. Come Sternberg  la plasmò per il cinema così per questa seconda nuova vita artistica è Burt Bacharach a modellarla e cucirle addosso lo spettacolo che porta in giro praticamente per tutto il mondo. Marlene ben conosce i suoi limiti vocali e così punta tutto sull’immagine, sull’impatto scenico e sul carisma della sua figura. Meravigliosi gli abiti, prima d’argento poi d’oro e leggendaria la sua pelliccia, in realtà un manto di cigno, ben duemila cigni ne servirono per confezionarla. Doveva avere l’aspetto di una pelliccia ma possedere la leggerezza di una piuma. Ci furono anche due tappe italiane di questo show rimasto nella storia , uno nel 1963 a Taormina e l’altro nel 1972 alla “Bussola”. Il pubblico in delirio accompagna Marlene per oltre vent’anni in giro per il mondo, fino al 1975 quando una brutta caduta con conseguente frattura del femore le impedisce di iniziare il suo spettacolo, da quel momento non appare più in pubblico. Successivamente,  solo un piccolo ruolo in quello che sarà il suo ultimo film, “Gigolo”, del 1978 e poi più nulla. Marlene ci lascia il 6 maggio del 1992, all’età di 91 anni, dopo 15 di clausura forzata, inchiodata nel letto della sua casa di Parigi. Si dice che fu lei stessa a volersene andare chiedendo alla sua segretaria un intero tubetto di sonniferi.  Morire durante il festival di Cannes poteva sembrare una sua tipica trovata, con gli attori che avrebbero lasciato il red carpet per andare a Parigi al suo funerale, ma i tempi ormai erano cambiati e a dare l’estremo saluto all’angelo azzurro c’erano solo pochi amici e qualche fan.

Eduardo Paola

(Articolo pubblicato su “Sussurri & Grida” nel numero di Settembre 2011)

Incontro con Angela Luce

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Non ha bisogno di presentazioni, basta pronunciare il suo nome e nella mente cominciano ad affollarsi immagini, scene e canzoni indimenticabili. Angela Luce appartiene a quella generazione alla quale occorreva solo il talento per affermarsi, e lei ne ha davvero tanto. Un talento incontenibile associato ad una bellezza fuori dal comune ne hanno fatta una delle icone più rappresentative e amate di sempre. Lo scorso 3 aprile, in una straordinaria serata d’onore organizzata dal Comune di Napoli al teatro Mercadante, ha festeggiato 60 anni di carriera. Durante il lungo percorso artistico ha lavorato con i più grandi maestri, da Eduardo a Pasolini, da Totò a Patroni Griffi, da Zeffirelli ad Avati. Nell’ambito musicale, tra i riconoscimenti più importanti, le sono stati assegnati il premio “Maschera d’argento” per l’esecuzione de “L’urdema tarantella” e il secondo posto al Festival di Sanremo 1975 per “Ipocrisia”. Per il Cinema si aggiudica il “David di Donatello” e la nomination per la palma d’oro a Cannes con l’interpretazione di Amalia nel film “L’amore molesto” di Mario Martone, la medaglia d’oro per il film “Malizia” al Festival di Saint Vincente e tantissimi altri riconoscimenti. Ecco perché ci si sente davvero privilegiati quando si ha la possibilità di incontrare artisti di razza come Angela Luce. Vestita con un elegante abito verde petrolio con una profonda scollatura dove ha strategicamente appuntato un fiore di stoffa che dovrebbe tenere a bada il generoso decoltè, è bellissima. Mi fa accomodare nel suo salotto, mi offre una tazza di caffè, qualche dolcetto e ha inizio così la nostra chiacchierata.

Angela, la tua è stata una vita per l’arte. Quale credi sia stata l’esperienza che ti ha arricchito maggiormente?

Si, nel mio caso non è luogo comune, la mia è stata proprio una vita per l’arte, il mio più grande amore. Se dovessi menzionare una esperienza in particolare, forse sbaglierei, perché sono state tante quelle che mi hanno arricchita, formata,  grazie anche ad incontri con personaggi prestigiosi come Eduardo, Giuseppe Patroni Griffi e tanti altri. I loro insegnamenti non potranno mai svanire dalla mia memoria, essi fanno parte della mia vita, sono dentro di me, mi appartengono e mi hanno dato quella ricchezza, quella sensibilità, quella formazione umana e artistica che mi dà la possibilità di interpretare così come ho sempre fatto.

Qual è il ricordo più bello che hai di Eduardo?

Sicuramente  il primo incontro che ho avuto con lui. Ero molto giovane.  Anche se consapevole dell’importanza della persona che avevo difronte, riuscii a tenere testa alla situazione, tant’è vero che Eduardo in virtù della mia disinvoltura non mi fece sostenere nessun provino. Pensa, sono stata scritturata  senza provino!

Per una grande carriera come la tua, fatta di lavoro, soddisfazioni e tanto impegno,  bisogna sempre rinunciare a qualcosa. Tu a cosa hai dovuto rinunciare?

Ho rinunciato a molte cose, perché nel momento in cui devi fare una scelta, ti trovi ad un bivio e quindi a  decidere se dedicare la tua vita ad un uomo, alla famiglia oppure alla carriera. Io non ho deciso da sola, in fondo sono stata aiutata dagli eventi della vita, in quanto ho incontrato sempre uomini che  non erano all’altezza della mia sensibilità, del mio essere donna e quindi ho scelto di non essere moglie, ma di essere l’artista che sono.

Molti ricordano l’operetta “Al cavallino bianco” dove ballavi, cantavi e recitavi. Cosa ti è rimasto di quella esperienza?

Mi chiamò il grande regista Vito Molinari, fu una delle tante esperienze importanti della mia vita, perché appunto dovevo ballare, cantare e recitare, in più sfoggiavo un italiano perfetto.  Per me che sono autodidatta, non avendo studiato né recitazione né canto né ballo fu una grande soddisfazione.

C’è una foto scattata sul set de “Il Decameron” dove ti si vede con Pasolini, uomo di grandissima intelligenza e sensibilità. Com’era sul set?

Pasolini era uomo di poche parole, un introverso. Una grande personalità, un uomo non comune, un genio. Era immenso. Ricordo che quando lo osservavo, lui mi diceva: “Non mi guardare Angela, perché il tuo sguardo scava dentro le persone”. Ma il mio amore, la mia stima, la mia ammirazione erano talmente grandi che rimanevo estasiata.

Qual è il tuo ricordo più bello legato al Natale?

Il ricordo inevitabilmente va indietro nel tempo, agli anni della mia gioventù, quando trascorrevo il Natale con la mia adorata famiglia. Era bellissimo, mia madre preparava tutte le cose più prelibate e tipiche del Natale. Mi ricordo i cestini tutti infiocchettati, pieni di frutta secca e la magica atmosfera che si respirava.

Per concludere, Angela qual è l’augurio più grande che vorresti fare?

Il mio augurio più grande è che riaprano le fabbriche, che si dia lavoro ai giovani e soprattutto che il governo ripensi una manovra giusta e soprattutto equa. Inoltre auguro tanta serenità e salute a tutti.

Eduardo Paola

Mia Martini, una voce per sempre

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Mia Martini fa parte di quella tipologia di artisti che ben fa comprendere la differenza tra interprete e cantante. Incasellarla in una categoria sarebbe assolutamente riduttivo, è come voler dare un’unica definizione ad un mondo con tutte le sue sfumature, con tutte le sue facce. Mia Martini era quello che interpretava e non c’era differenza tra la donna e l’artista, era un tutt’uno. E forse è anche per questo modo viscerale di intendere e vivere l’arte che non è riuscita a sopravvivere in un mondo difficile e spietato come quello dello spettacolo. Il suo cuore d’artista non ha retto ad un sistema che mette al primo posto il profitto e non l’espressione artistica. Solo quando si esibiva riusciva ad integrarsi e ad essere parte di un mondo che fuori dal palco faticava a comprendere; solo davanti ad un microfono riusciva ad esprimersi, e questo le accadeva fin da bambina quando, piccina, saliva su una sedia e cominciava a cantare. Il percorso artistico di Mia Martini comincia da ragazzina. Dopo svariate esperienze in piccoli festival e varie manifestazioni canore, nel 1963 incide con il nome di Mimì Bertè il primo 45 giri, “Il magone”. Pensano di lanciarla come ragazzina yè yè, e anche se non passa inosservata, tanto da avere la possibilità di esibirsi in Rai durante una puntata dello show “Studio uno” condotto da Mina, la giovane Mimì non si sente propriamente a suo agio in quelle vesti che non le appartengono. Dopo qualche anno e una terribile esperienza in carcere per essere stata sorpresa in possesso di pochi grammi di hashish, la giovane Bertè ritorna sulle scene, fortemente segnata, nel 1971, con il nome di Mia Martini e un nuovo look. Alberico Crocetta, proprietario del famoso Piper Club la lancia nella sua nuova carriera. Look zingaresco e repertorio intimista sono le caratteristiche del nuovo percorso. La prima canzone è “Padre davvero”, un pezzo molto forte che racconta il difficile rapporto tra generazioni diverse con un testo di grande impatto emotivo che fu censurato in alcuni versi della Rai. Segue il primo album, “Oltre la collina”, considerato ancora oggi uno degli album più belli in assoluto dell’intera discografia italiana. L’album, molto all’avanguardia, introduce argomenti e tematiche mai affrontate prima dalla musica leggera, come la solitudine e il suicidio. Lasciata la casa discografica Rca, Mia Martini approda alla Ricordi con la quale incide alcuni tra i suoi brani di maggior successo, come “Piccolo uomo” e “Minuetto”, con le quali vince per due anni consecutivi il Festivalbar. Questi sono gli anni di capolavori come gli album “Il giorno dopo”, “E’ proprio come vivere” e “Sensi e controsensi”. La popolarità dell’artista è grandissima e valica i confini italiani. Nel 1974 è considerata dalla critica europea la cantante dell’anno; i suoi dischi vengono distribuiti in vari paesi del mondo e registra i suoi successi in francese, tedesco e spagnolo ottenendo consensi significativi anche all’estero, in particolare in Francia, dove viene paragonata ad Edith Piaf e si esibisce in alcuni concerti, rimasti nella storia della musica, all’Olympia insieme a Charles Aznavour. Nel 1977 avviene forse l’incontro più importante della sua vita, sia artistica che personale, quello con il cantautore Ivano Fossati. Un incontro che la stessa artista definisce come “uno scontro frontale”. Oltre ad una collaborazione artistica che porta alla realizzazione di alcune perle come “Vola”, “Danza”, “La costruzione di un amore”, “E non finisce mica il cielo”, nasce anche una storia d’amore che porta l’artista ad un passo dal lasciare la sua carriera, e tutto questo per amore di quest’uomo che si rivela geloso proprio del suo essere artista. Quello con Ivano Fossati è un rapporto che la segna fortemente e che forse mai riuscirà a superare portandosene dietro per tutta la vita gli strascichi. Intrappolata da questo sentimento, l’artista somatizza il suo malessere; per il forte accumulo di stress comincia a soffrire di gravissimi problemi alle corde vocali con conseguente doppia operazione. L’intervento si rivela molto invasivo, tanto da cambiarle per sempre il colore e il timbro della voce. Per un lungo periodo è costretta a stare lontana dalle scene e riprende lezioni di canto per riuscire ad esprimersi al meglio con la sua nuova voce. Quella nuova voce, roca, lacerata, sgranata, aderisce ancora di più con la drammaticità del suo repertorio e col suo vissuto regalando alle nuove esecuzioni un pathos ancora maggiore. Nel 1982 Mia Martini partecipa per la prima volta al Festival di Sanremo portando in gara un brano di Fossati “E non finisce mica il cielo”, che le vale il premio della critica, appositamente istituito per lei quell’anno. Da quel momento la carriera subisce un’altra battuta d’arresto causata da sedicenti amici e colleghi che la diffamano affermando che porti sfortuna, una terribile etichetta che le era stata appiccicata già anni prima ma che nel corso del tempo le impedisce addirittura di lavorare. Tra piccoli ritorni e lunghi silenzi resta lontana dai palcoscenici fino al 1989, l’anno del definitivo rilancio con l’exploit a Sanremo di “Almeno tu nell’universo”, straordinario pezzo che la impone di nuovo sulle scene. Fino al 1995, anno della sua morte, Mia Martini ha ritmi frenetici, incide diversi album e si esibisce in vari tour in tutt’Italia. Negli ultimi anni di vita recupera il rapporto col padre e si stabilisce proprio nei pressi della sua abitazione. Anche se i rapporti non sono sempre ottimi, si sente fortemente legata a suo padre e alle sue origini calabresi, tanto da voler esasperare nel look quei tratti tipici di famiglia come le grosse sopracciglia che tanto la facevano somigliare a suo padre. A distanza di 18 anni dalla sua morte la sua voce è continua ad essere presente e amata dal suo pubblico che ancora oggi riesce a conquistare. Del resto la voce di Mia Martini incarna il sentimento dell’amore in modo totale, dolce, disperata, soffocata, innamorata. Mia Martini ha vissuto tutta la sua vita in funzione dell’amore e alla ricerca dell’amore. Come dichiarò in una intervista a proposito della sua ricerca e del suo bisogno d’amore: “non deve essere nulla di speciale…mi basta solo che sia un amore”.

Eduardo Paola

(Articolo pubblicato su “Sussurri & Grida” nel numero di Ottobre 2013)

Vincenzo Scarpetta, un grande autore rimasto all’ombra del padre

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Vincenzo Scarpetta è stato da sempre un personaggio rimasto un po’ all’ombra,  schiacciato sia in vita che in morte dal grande carisma e dalla forte personalità del suo celebre padre Eduardo. Eduardo Scarpetta aveva imposto al figlio la sua stessa strada obbligandolo a proseguire da capocomico il percorso che aveva tracciato, nominandolo continuatore della maschera di Felice Sciosciammocca. Vincenzo era l’unico figlio nato dall’unione tra Eduardo Scarpetta e sua moglie Rosa De Filippo, dato che Domenico era nato da una precedente relazione di Rosa con il re Vittorio Emanuele II e Maria, da una relazione extraconiugale di Eduardo. Vincenzo Scarpetta non è stato però solo un semplice continuatore del teatro di famiglia, ma è riuscito a dare una sua impronta e ad introdurre nuove tematiche e nuovi spunti all’interno delle tipiche farse Scarpettiane.  Da alcuni anni, ad accendere una luce su questo personaggio da sempre sottovalutato e messo da parte è Maria Beatrice Cozzi, moglie del nipote di Vincenzo Scarpetta, che con grande passione sta cercando, attraverso tutta una serie di iniziative, di fargli riconoscere il valore che merita. E’ difficilissimo districarsi tra i rami dell’albero genealogico della famiglia Scarpetta, tra figli, nipoti, pronipoti, figli illegittimi ecc. Gli Scarpetta poi sembrano divertirsi ad imbrogliare ancor di più le carte utilizzando da sempre gli stessi nomi, affiancandoli in qualche caso a diminutivi. Ecco che Maria Beatrice, detta Mariolina, con grande pazienza cerca di chiarirmi la situazione dicendomi che ha sposato Edoardo Scarpetta, figlio di Vincenzo Scarpetta detto Sisso, figlio a sua volta di Vincenzo Scarpetta detto Vincenzino, figlio del capostipite Eduardo Scarpetta. Messi questi punti fermi, inizia la nostra bella conversazione.

Mariolina, com’è nato questo tuo desiderio di rivalutare la figura di Vincenzo Scarpetta?

Io dico sempre che questo mio desiderio, purtroppo, è nato troppo tardi. In passato, mia suocera, la moglie di Sisso, si lamentava sempre che né suo marito né i suoi figli si interessassero dei documenti che riguardavano Vincenzo e mi pregava di occuparmene, ma io non avevo nessun interesse e facevo sempre cadere questa richiesta. Poi, un giorno di due anni fa, dopo la morte di mia suocera, mentre mi trovavo a palazzo Scarpetta, in Via Vittoria Colonna, aprii uno di quei famosi armadi che conservano tutti i documenti e lì è scattata la molla. Mi sono cadute addosso carte, immagini e documenti  meravigliosi. Le prime cose a cui ho prestato attenzione sono stati gli spartiti musicali, perché Vincenzo amava molto la musica, il suo sogno infatti era quello di diventare musicista, sogno che però dovette abbandonare per soddisfare le ambizioni del padre, che voleva fargli ripercorrere i propri passi.

Quali sono le differenze tra le commedie di Vincenzo e quelle di suo padre?

Io ho avuto la fortuna di leggere i copioni originali di Vincenzo e posso dire che egli ha fortemente modificato il carattere del personaggio di Felice, introducendo nei testi anche nuovi temi mai trattati prima, come ad esempio quelli sociali, quelli della magistratura corrotta, quelli dell’essere e dell’apparire, naturalmente affrontati sempre alla maniera ironica tipicamente scarpettiana, ma riuscendo comunque a dare un taglio più moderno ai testi. Tutto questo diventa sempre più evidente dopo il 1925, a seguito della scomparsa di suo padre Eduardo. Vincenzo non abbandonerà mai il repertorio Scarpettiano, ma lo affiancherà ad un teatro più impegnato avendo come punto di riferimento Luigi Chiarelli e Luigi Pirandello. La versione in napoletano di “Liolà”, portata in scena dai fratelli De Filippo, fu depositata in Siae da Peppino De Filippo, ma nella sede di Napoli esiste una richiesta di autorizzazione del testo in napoletano fatta dalla compagnia Scarpetta. Al momento non c’è ancora una prova certificata che attesti la paternità di “Liolà” in napoletano di  Vincenzo Scarpetta, ma che sia sua è certo. Altro grande amore di Vincenzo fu la rivista. Ho ritrovato un frammento di un suo spettacolo di rivista molto interessante, dove egli prendeva le distanze dal repertorio di Eduardo, personificando le commedie del padre e quindi ci ritroviamo davanti alla Signora Miseria e Nobilità, la Signora Santarella, ecc. che poi, nel corso della vicenda abbandona per amore della Signorina Rivista.

Si racconta che Vincenzo Scarpetta fosse innamorato della celebre chanteuse Eugénie Fougère. Quanto c’è di vero in questa storia?

Vincenzo era pazzamente innamorato di questa donna, per la quale era disposto a lasciare tutto e trasferirsi a Parigi, dove già gli avevano offerto un contratto all’Olympia. Ma ancora una volta papà Eduardo decise per lui e gli impedì di seguire il suo grande amore. In seguito, Vincenzo si innamorò dell’attrice Amelia Bottone e contro il volere di Scarpetta, che lo voleva marito di una nobile ungherese, la sposò nel 1911.

Quali erano i rapporti tra Vincenzo Scarpetta e Eduardo De Filippo?

Erano ottimi. I tre fratelli De Filippo, giovanissimi, facevano parte della sua compagnia. In particolare i rapporti erano buoni con Eduardo, che già allora aveva una paga maggiore rispetto ai fratelli. Titina abitò nel dopoguerra a palazzo Scarpetta, al primo piano e quindi ebbe contatti assidui col fratellastro. Anche Peppino visse a palazzo Scarpetta, ospite della sorella Titina, dopo la seconda guerra mondiale, quando la sua casa a parco Grifeo fu distrutta dai bombardamenti.

Ci sono in atto delle iniziative per il recupero della figura di Vincenzo Scarpetta?

Sì. Luca De Filippo, che ringrazio molto per la grande disponibilità, ha messo a disposizione dei fondi per la restaurazione, ad opera della cineteca di Roma (che già nel 2008 ha recuperato il film del 1911 “Tutto su mio fratello”) del film “Il gallo nel pollaio” del 1916 con protagonista Vincenzo Scarpetta, pellicola trovata ad Oslo e al momento unico film di quel periodo.

Eduardo Paola

(Articolo pubblicato su “L’Espresso Napoletano” nel numero di Novembre 2013)

Tina Lattanzi, la voce italiana di Hollywood

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E’ stata la voce delle più celebri femme fatale del grande schermo dagli anni 30 agli anni 50. Tina Lattanzi, nata il 5 dicembre del 1897, ha doppiato le più grandi attrici di Hollywood utilizzando le mille sfumature della sua voce e facendo di quel suo tipico birignao l’inconfondibile marchio di fabbrica che l’ha sempre contraddistinta. Dotata di una voce dal timbro particolarissimo, piena di fascino e di mistero, è riuscita a riprodurre nel doppiaggio italiano tutta la magia di attrici come Greta Garbo, Marlene Dietrich, Joan Crawford, Greer Garson, Rita Hayworth, regalando ad ognuna di loro colori e caratteri diversi, contribuendo a rendere indimenticabili i personaggi interpretati.  Il suo percorso artistico inizia prestissimo, nel 1923, con l’attrice russa Tatiana Pavlova. Successivamente fa il suo ingresso nella compagnia di Ruggero Ruggeri, con il quale girerà il mondo con diversi spettacoli di prosa. Per il suo ruolo in “Fedra” ebbe addirittura i complimenti dal poeta Gabriele D’Annunzio. In seguito viene scritturata da Mario Mattoli per la compagnia teatrale “Za-bum”, facendo così il suo ingresso nella rivista. Questi, inoltre, sono gli anni delle prime apparizioni sul grande schermo con film come “La straniera” di Amleto Palermi e Gaston Ravel e “Cinque a zero” di Mario Bonnard, con Milly e Vittorio De Sica. Ma il suo nome è e resterà indissolubilmente legato soprattutto al doppiaggio. La Lattanzi fu scelta direttamente dalla casa cinematografica americana Metro Goldwyn Mayer per doppiare Greta Garbo in film leggendari come “La Regina Cristina”, “Il velo dipinto”,  “Maria Walewska”, “Mata Hari”, “Anna Karenina”.  Uno dei suoi pregi è stata la grande duttilità nella voce; una voce che è sempre riuscita ad adattare sia a personaggi giovani e freschi che a personaggi avanti negli anni modellando, personalizzando e plasmando il tono a seconda del personaggio interpretato. Quando vennero distribuiti in Italia i film con Greer Garson la Metro Goldwyn Mayer si occupò nuovamente della scelta della voce italiana e chiese i provini di diverse attrici meno quella della Lattanzi, poiché la MGM non voleva che la Garbo e la Garson avessero la medesima voce. La Lattanzi però non aveva nessuna intenzione di essere esclusa dai provini e sostenne comunque l’audizione per il film “La Signora Miniver” firmandosi con uno pseudonimo. La scelta della casa cinematografica americana, ignara che si trattasse della Lattanzi, cadde nuovamente su di lei. Anche nel campo dell’animazione è stata spesso utilizzata, quasi sempre per personaggi “cattivi” come Madame Tremaine nel lungometraggio Disney “Cenerentola” o Grimilde per “Biancaneve e i sette nani”, Malefica per “La bella addormentata nel bosco”, la Regina di Cuori per “Alice nel paese delle meraviglie”. La Lattanzi ha sempre sostenuto che il suo segreto è stato quello di cercare di imitare po’ le voci originali delle attrici, così da rendere il suo timbro più aderente al personaggio interpretato, cosa che non riscontrava nei doppiatori della nuova generazione, che riteneva interpretassero sempre sé stessi, appiattendo la recitazione, usando la medesima voce per qualsiasi attore e qualsiasi ruolo. Si dice che Greta Garbo ascoltandosi nel doppiaggio italiano nel film “Margherita Gauthier” del 1936 abbia detto che sarebbe certo stata una migliore attrice se avesse avuto la stupenda voce della Lattanzi. Scomparsa nel 1997 a pochi giorni dal suo 100° compleanno, Tina Lattanzi anche in età avanzata ha conservato quel brio, quella voglia di vivere, quella luce magica nei suoi occhi sempre vispi, fino alla fine. Le nuove generazioni l’hanno conosciuta soprattutto per le sue ospitate nei salotti televisivi, come al “Maurizio Costanzo Show” dove, sempre contraddistinta da un’innata ed elegante ironia, raccontava i fasti e i successi di una vita completamente dedicata all’arte. Grande appassionata del gioco d’azzardo – mitici sono i suoi racconti di notti intere passate nelle bische con la Magnani e De Sica – aveva interamente scialacquato ogni sua risorsa, tanto da dover vivere i suoi ultimi anni di vita tra ristrettezze e grazie al sostegno previsto dalla legge Bacchelli per gli attori in stato di indigenza. Una delle sue ultime battute riguardo proprio alla sua passione per il gioco è stata: “Andrei subito nell’ Aldilà se sapessi che c’è un tavolo da poker!”. Speriamo che in Paradiso l’abbiamo accontenta preparandole al suo arrivo un favoloso tavolo verde.

Eduardo Paola

(Articolo pubblicato su “Sussurri & Grida” nel numero di Settembre 2012)

Edith, la voce degli ultimi

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Sembra quasi che certi artisti non possano nascere in un luogo o in un tempo diverso da quello in cui sono venuti al mondo. Edith Piaf non poteva che nascere in un sobborgo affollato e soffocante della Parigi più affamata e disperata del primo dopoguerra. La sua voce ha dato anima e corpo, specialmente nella prima parte della sua carriera, alle storie degli ultimi della società, storie di uomini e donne che cercano di lottare con le avversità della vita e con le mille porte chiuse in faccia dalla società perbenista. Se i miracoli esistono, allora uno è sicuramente quello della sua voce, una voce racchiusa in un corpo minuto e consumato dalla vita. Un corpo che con grande difficoltà è riuscito a tenere il passo con il suo animo vulcanico, indipendente e sempre alla ricerca disperata dell’amore. Edith Piaf, figlia di una attrice e cantante di strada di origine italiana e di un contorsionista, comincia a cantare già da bambina proprio negli improvvisati spettacoli del padre tra le strade parigine, elemosinando qualche spicciolo per sopravvivere. Proprio in quel periodo difficile, in quegli anni di artista di strada, prima col padre e poi da sola, tra freddo e stenti, la sua salute viene definitivamente compromessa trasformando e minando quel corpo già esile e delicato. La sua è stata un’infanzia segnata dalla miseria e dagli abbandoni, prima da parte della madre e poi da parte del padre, infatti la piccola Edith passa gran parte della sua infanzia nel bordello gestito da sua nonna, fino a quando suo padre non ricompare nella sua vita e la porterà con sé nei suoi vagabondaggi . Adolescente, canta tra le misere strade di Parigi medicando qualche soldo nell’abbrutimento più totale, ma quando il destino è segnato, anche nel buio più nero una stella riesce sempre a brillare e ad emergere. Nel 1935 avviene l’incontro con Louis Leplée, proprietario del Gerny’s, un salone di cabaret degli Champs-Elysées molto in voga all’epoca. Louis Leplée la ripulisce letteralmente e a pochi giorni dal fortunato incontro, la giovane Edith Gassion viene presentata al pubblico come la “Mome Piaf”. Il successo è immediato, le prime critiche parlano già di fenomeno, ma la strada è sempre tutta in salita e dopo qualche tempo, quando Leplée viene trovato morto, la stella di Edith sembra doversi spegnere per sempre insieme a quella del suo pigmalione. Ma come l’araba fenice la giovane Mome Piaf risorge dalle sue ceneri e rinasce come Edith Piaf, l’artista che tutto il mondo ha conosciuto ed amato, l’artista che senza orpelli, nell’assoluta essenzialità si presentava al pubblico col suo anonimo abito nero. Lei non aveva bisogno di altro. Su quel vestito nero c’erano tutte le miserie di questo mondo e nel suo canto, il disperato grido di un popolo che vive, lotta, ama e non si arrende mai. Si, la sua vita come le canzoni sono sempre state un inno alla vita, alla speranza, all’amore. Il suo corpo minuto si imponeva sul palco e gli occhi degli spettatori non potevano non essere rapiti dal suo carisma. Le sue mani durante le esibizioni disegnavano figure astratte nell’aria e la sua voce riempiva e inebriava le anime degli spettatori, mentre la sua carica espressiva raccontava storie, stati d’animo, emozioni e sentimenti immortali. L’amore è stato uno dei grandi motori della sua vita, disposta sempre a donare tutta sé stessa nelle innumerevoli storie che l’hanno accompagnata fino alla fine. Edith Piaf aiuta molti dei suoi amori a farsi strada nel mondo della canzone, tra tutti ricordiamo Yves Montand e Georges Moustaki. Segnata dai grandi e dolorosi abbandoni della sua infanzia, non riesce a sopportare l’idea di essere lasciata e per questa fobia, sistematicamente, è sempre lei per prima ad allontanarsi dai suoi amori. La sua vita è stata piena anche di grandi amicizie, tra tutte quella con Marlene Dietrich, la quale fu anche testimone di uno dei suoi matrimoni e poi quella con la sua fedele compositrice Marguerite Monnot, autrice tra l’altro di tanti suoi grandi successi, come “Hymne à l’amour” e “Milord”. Consumata dall’alcool e dalla droga che le permette di sopportare i terribili dolori procurati dall’artrosi deformante da cui è affetta, Edith Piaf passa da grandi trionfi a malori a scena aperta, che la costringono poi definitivamente ad abbandonare per sempre le luci della ribalta. Si spegne nel 1963 a soli 47 anni. Uno dei suoi ultimi successi è stato “Non je ne regrette rien”, che può considerarsi il suo testamento morale, in quanto esprime la voglia di ritornare, di cancellare il passato guardando sempre avanti, fedele sempre a sé stessa e a quella sua filosofia di vita che le ha permesso di vedere sempre la vie en rose.

Eduardo Paola

(Articolo pubblicato su “Sussurri & Grida” nel numero di Giugno 2011)